Il 18 agosto sono stato a Expo 2015.
Ero convinto che fosse un evento figo. Tanti padiglioni, tante copertura mediatica e un tema, quello del cibo, su cui si può dire tanto senza dover raschiare il fondo del barile delle minchiate. Ok, il cibo in generale non permette gli stessi discorsi high tech (il meglio dello sviluppo e progresso di ogni nazione) che un buon Expo dovrebbe permettere, in fondo non era su telecomunicazioni o esplorazione spaziale.

In più il marketing dei falsi ecologisti (quelli da baracchino retard e slogan anti-OGM, che odiano i termovalorizzatori e si fanno seghe con l’eolico, convinti che un grammo di fuffa valga più di un kg di scienza) non ha, immagino, permesso di parlare dell’alta tecnologia e ricerca scientifica nel settore agroalimentare, ovvero in essenza OGM e robe così, si è preferito tacere (c’era qualcosina minimale di accenno nel padiglione USA e altrove spizzichi camuffati).

Un po’ come i padiglioni di Iran e simili hanno preferito tacere sull’Islam. Nel meraviglioso, uno dei pochi degni che ho visto, padiglione iraniano dopo la visita uno per quanto ne sapeva l’Islam non c’era e le donne vestivano solo con abiti occidentali, avevano pari diritti degli uomini e giravano a capo rigorosamente scoperto. Padiglioni di paesi islamici che gridavano forte “sappiamo di fare schifo e sappiamo di starvi sul cazzo, ma facciamo finta che siamo persone per bene e che amiamo vivere in pace con le altre religioni!”
La cosa più vicina al dare un senso di realtà al tutto è che il padiglione di Israele è infilato in mezzo a un paio di strati di padiglioni di paesi occidentali amici, senza paesi arabi o islamici addosso.

Questo è il monumento alla convivenza con l'Islam di Expo 2015. Ho dato dei nomi ai due che ci guardano, Omar e Muhammad. Muhammad è quello felice.
Questo è il monumento alla convivenza con l’Islam di Expo 2015, esposto con garbo a pochi passi dai padiglioni di diversi paesi islamici. Ho dato dei nomi ai due maiali che ci guardano, Omar e Muhammad. Muhammad è quello felice.

Ah, lasciando da parte gli scherzi: di quelli che ho visto i padiglioni di paesi islamici erano i migliori, più seri, più a tema e più chiari, soprattutto Oman e Iran. Complimenti.

Però perfino castrandosi nel modo falso-ecologista indicato prima e volendo imbastire un discorso un po’ scemo c’era TANTO da dire e TANTO da mostrare per ogni paese coinvolto. Cosa coltivano, cosa allevano, perché, la loro storia agricola e la loro industria alimentare, prospettive di sviluppo ed eccellenza, così TANTO! Saprei farlo perfino io, ho girato alcuni padiglioni costruendo a mente il loro percorso che mancava.

Doveva essere figo comunque anche nel caso peggiore… e poi avevo due biglietti omaggio, ottenuti comprando la nuova lavatrice, per cui ci sono andato lo stesso! L’idea con mio fratello era di andare ad agosto una volta e poi tornare, comprando altri biglietti, a fine settembre per vedere un’altra fetta di padiglioni fighissimi. ^_^

E invece? Dove sono stato io a visitare c’era tanta fuffa, tanta idiozia e tanti padiglioni pressoché vuoti, con ampi spazi occupati da stupidate finto-artistiche e pochissime (talvolta proprio zero) informazioni sulla gloria e potenza agroalimentare delle rispettive nazioni. O anche solo nulla a che spartire con l’intelligenza.
Il che ci porta naturalmente al monumento che io chiamo l’autuccello che la Repubblica Ceca ha sentito il bisogno di esporre come simbolo del suo modo di “nutrire il pianeta” e della sua ricca cultura alimentare. Complimenti, ora è tutto chiaro: a sfamare il pianeta non ci provate nemmeno.

L'autuccello della Repubblica Ceca.
L’autuccello della Repubblica Ceca.

Partiamo con la Repubblica Ceca, visitata da mio fratello proprio pochi giorni prima. Roba artistoide esposta a caso. Informazioni sulla loro cultura del cibo, birra e vino? Non pervenute. Non sono stato al ristorante, ma magari era figo e si poteva mangiare un ibrido uccello automobile: unica possibile giustificazione gastronomica (Questo. È. Un. Expo. Sul. Cibo.) alla chimera esposta nella piscina là davanti.

Comunque il padiglione Ceco non è che fosse del tutto fuori luogo: parlava però solo di… genetica e biologia. E qualcosa sulla purezza dell’acqua. Però non è che se mi fai vedere due sculture e qualche foto al microscopio appesa, poi ho capito qualcosa di concreto sull’alto livello tecnologico raggiunto dai Cechi in questi ambiti. Però meglio che niente: altri hanno fatto peggio.

Ecco come la Repubblica Ceca intende nutrire il pianeta. Chiaro, no?
Ecco come la Repubblica Ceca intende nutrire il pianeta. Chiaro, no?

Passiamo alla Corea del Sud.
Ottimo padiglione, ben organizzato e davvero a tema, con solo alcune cavolate messe per occupare i grandi spazi realizzati in eccesso rispetto al reale bisogno. Personale femminile gentile e deciso organizzava i flussi di visitatori. Seguiva poi una visita che iniziava organizzata con guida e presto si disperdeva diventando in pratica libera.

Solo due attrazioni viste erano davvero inutili, in quanto una  stupida e l’altra non legata davvero al tema del cibo. La prima erano i ciccioni in cammino che rappresentavano l’alimentazione moderna sbagliata, e poco distanti i bambini che muoiono di fame. Metri su metri sprecati per una roba mal fatta, banale, di scarso impatto.

Diciamo almeno che era a tema: il padiglione sud coreano parlava del ritorno a un’alimentazione più bilanciata, costruita attorno al loro modello tradizionale (Hansik) legato al consumo di verdure fermentate in grandi vasi semisepolti nel suolo e connesso anche al consumo di prodotti stagionali. Ok, questo è a tema con Expo: meno sprechi, meno alimentazione capitalista legata al consumo-consumo-consumo, più attenzione alle risorse e alle tradizioni efficienti, come quella sud coreana.

L’altra idiozia erano due bracci robotici che manovravano uno spettacolo di schermi: ok, lo sappiamo che avete una grande tradizione nella robotica industriale, ma chissenefrega! Era proprio sconnesso da tutto il resto. ^_^
Però non importa, alla fine era un padiglione a tema, ben fatto e interessante che faceva capire davvero cosa mangiano (perlomeno nell’alimentazione tradizionale) i sud coreani.

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Molto graziosa l’esposizione di teiere e tazze con informazioni sulla cultura coreana del tè. Si notano strumenti adatti sia a fare l’infusione alla cinese del tè (le tazze con sopra il coperchietto forato credo proprio siano l’equivalente coreano del gaiwan cinese) che per il consumo del tè polverizzato come ancora si usa nella cerimonia del tè giapponese.

Sosta al bar per uno spuntino. Sfortunatamente il padiglione sud coreano, ben fatto anche in questo aspetto, ha illuso me e mio fratello di poter viaggiare nell’esperienza del cibo locale anche negli altri padiglioni sfruttando l’idea degli snack. Illusi. Negli altri posti o non c’erano cose interessanti o c’erano ma erano da pasto vero e proprio.

Dicevo, in questo caso è andata bene: ci siano divisi quattro pezzi di involtino coreano (il kimbap, simile al maki giapponese) con dentro il tradizionale cavolo cinese fermentato e abbiamo bevuto del “tè alla prugna” che però non  è tè per davvero. Anche questa è una bevanda tipica della Corea del Sud, per cui ottimo così.

Il “tè alla prugna” dicevo che non è tè per davvero perché si tratta di Maesil Cha. Eh, sì, anche loro lo chiamano ingiustamente “tè alla prugna”, anche se né tè né prugna sono i termini corretti. Ovviamente non è té perché non è coinvolta la Camelia Sinensis, mentre non è di prugna perché il frutto da cui ricavano il succo concentrato (che poi viene diluito con acqua) in realtà è la versione coreana di un tipo di albicocca giapponese.

Per chi sa qualcosa di cibi giapponesi è facile immaginare il tipo di frutto: cos’è geneticamente un’albicocca, ma visto l’aspetto esteriore in occidente lo traduciamo scorrettamente come prugna? Esatto, l’ume. Qualcuno di voi mangia umeboshi intere o perlomeno usa la polpa di umeboshi o il suo aceto in cucina? Immagino di sì. Io adoro la botta di acidità e sale della polpa, che metto negli onigiri e qualche volta mangio da sola (un bel cucchiaino). ^^

Il "tè alla prugna" e il kimbap al cavolo fermentato. Ottimi.
Il “tè alla prugna” e il kimbap al cavolo fermentato. Ottimi.

Un padiglione che lascia perplessi e uno bello. Per ora siamo in pari.
Ah, dimenticavo: prima della Corea del Sud siamo andati in quello del Vietnam. Immaginate l’effetto: prima siamo stati in quello Ceco che è “meh” e ti fa chiedere “ok, e il cibo dov’è?”, poi siamo andati nell’area mercato che era una serie di piccoli stand di venditori di carabattole identici a quelli che si trovano in zona stazione centrale a Milano o simili (e quindi ancora l’effetto “cos’è ‘sta mmerda?”)… e quindi non eravamo in pari, eravamo in negativo. Ci voleva qualcosa che rialzasse di parecchio il livello di Expo 2015.

E non è stato il Vietnam. Padiglione squallido, in realtà un negozietto di carabattole su due piani e basta. Per chi lo voleva il mitico cappellino retard a cono da contadino cinese, per soli 10 o 15 euro (non ricordo la cifra). Qualcosa sulla cultura culinario vietnamita? No. Sul tè? No. Vuoi un cappellino retard? No, grazie. Io amore lungo, io succhia succhia, dieci dolla! Dieci dolla tutti e due? Dieci dolla, uno. La mamma mi ha detto che più di cinque dollari non posso spendere.
E non c’erano nemmeno i vietcong nei cunicoli. Veramente pessimo.

Torniamo all’ordine cronologico della visita. Dopo la Corea del Sud che ci ha risollevato il morale e riempiti di speranza per l’Expo (è figo, Renzie ha raGGione!) abbiamo fatto una capatina al cluster del cacao, stupidamente convinti che i cluster tematici parlassero dei rispettivi temi. NO.

I cluster servivano solo a dare piccole stanze ai paesi troppo poveri per un proprio padiglione e troppo poco furbi per rinunciare a Expo. Ok, poi magari nel cluster un po’ del tema si parlava (in quello del riso c’era un’area sul Basmati, ma non l’ho visitata), ma non era vitale e alla fin fine fregava poco anche ai paesi lì messi che invece si dedicavano al commercio di collanine e idiozie da venditore etnico alla stazione.

E così è stato per esempio il padiglione delle Samoa e Isole Principe, e lo sono stati anche un paio che non ricordo nel cluster caffè. Si capiva anche guardando dalla porta, senza entrare, che erano negozietti squallidini: ne ho sbirciati vari e visitati solo i tre detti prima.
Per ora il bilancio è a +0 per la Ceca, -1 Vietnam, +1 Corea del Sud, -1 area mercato atroce, -1 cluster Cacao, -1 cluster Caffè e non voto il riso perché magari la stanza sul Basmati era bella e non l’ho vista. Totale: -3

Quello dell'Ecuador era l'unico padiglione a sembrare da fuori un covo di fattoni. E accanto, per rieducarli e salvarli dalla droga, Don Bosco. Perfetto.
Quello dell’Ecuador era l’unico padiglione a sembrare da fuori un covo di fattoni. E accanto, per rieducarli e salvarli dalla droga, Don Bosco. Perfetto.

Un salto nel padiglione della Malesia, diviso in varie strutture. Sufficientemente a tema, con una giungle ricostruita che però non è che fosse poi granché interessante. Niente di particolarmente interessante sul cibo o sulla cultura agroalimentare del posto, ma non era da buttare. Diciamo che andava bene, un +0 che mantiene il complessivo -3.

Padiglione successivo quello della Cina. Partivo con l’idea che sarebbe stato meraviglioso e un po’ di coda non mi spaventava, tanto ero già pronto a fare almeno 1 ora per quello del Giappone. Non mi ricordo quanto è durata la file, forse 25-30 minuti, comunque non troppo. Alla fine è andata molto più veloce che all’inizio.

Poteva essere un padiglione splendido, la Cina ha così tanto da dire ed è così vasta. Invece non lo è stato. Tanto spazio sprecato per canne di bambù finte, opere d’arte e disegni fatti dai bambini per volontà del Partito. Quando comunque hanno parlato di agricoltura e cibo, hanno cercato di rimanere sul tema con foto, campioni e piccoli documentari su schermi appesi in giro.

Enormi spazi di nulla, come questa coglionata di lucine che cambiavano colore. Una metafora del fatto che la Cina è vasta, ma gran parte è vuota e la popolazione si concentra in pochi posti? No, scherzo. È solo una merda. ^^
Enormi spazi di nulla, come questa coglionata di lucine che cambiavano colore. Una metafora del fatto che la Cina è vasta, ma gran parte è vuota e la popolazione si concentra in pochi posti? No, scherzo. È solo una porcata. ^^

Pochissimo spazio per il tè: un bell’espositore con tante foglie esposte, ma zero spiegazioni o nomi. Un piccolo documentario cercava di metterci una pezza poco dopo, ma siamo molto sotto ciò che ci si aspetterebbe da un paese per cui il tè è stato ed è un prodotto così importante.

Ormai era ora di mangiare, per cui pranzo lì. Ma sarebbe stato meglio evitare: era roba che si poteva trovare in qualsiasi ristorante cinese decente. Ben fatta, ma la solita roba. Da bere ho preso un tè nero, servito con le foglie nel bicchiere: buono, corpo delicato, tannino niente affatto aspro, dalle note di sottobosco e terroso direi uno Yunnan.

Buon tè.
Buon tè.

Nell’insieme… non so, il padiglione cinese non mi è dispiaciuto, ma non è neppure un granché. Vorrei dare +1 perché in fondo era a tema e qualcosina di carino c’era, ma nei voti il +1 va guadagnato. Qui siamo più vicini al neutro “ok, non mi è dispiaciuto” che al “bello, risolleva la media”. Il risultato rimane -3.

Una copia del Cha Jing di Lu Yu, il più antico testo che parla del tè e della sua preparazione. Testo sacro. Visione. Presto, qualcuno sacrifichi un pollo a Satana!
Una copia del Cha Jing di Lu Yu, il più antico testo che parla del tè e della sua preparazione. Testo sacro. Visione. Presto, qualcuno sacrifichi un pollo a Satana!

Due padiglioni sul mondo naturale radicalmente opposti sono stati quelli dell’Austria e dell’Iran. Il padiglione dell’Austria aveva un piccolo bar e zero informazioni su cibo o cultura correlata, tutto lo spazio era occupato da un sentiero in un bosco ricostruito. Un bel bosco, nulla da dire. Il tema era l’aria, la sua importanza e l’importanza delle foreste. Ok, va bene, sei vagamente a tema. Qualche boiata artistica come la medusa nella teca da gonfiare con una pompa per bambole a uso sessuale davano un tono più cretino alla cosa, ma in fondo è stato rapido e piacevole. Non me la sento di penalizzarlo, ma ci siamo vicini, eh…

Idea simile, ma tutta un’altra storia il padiglione dell’Iran. Prima la natura selvaggia, ora la natura ordinata dall’uomo: il giardino. La cosa peggiore erano i tre grossi pupazzi di lato rispetto all’ingresso, tutto il resto era ottimo. Un percorso tra piante profumate, suoni, fiori e frutti consumanti in Iran. Islam? Non pervenuto, addirittura si parlava in pratica solo di Persia, il vecchio nome pre-rivoluzionario (anche se ha convissuto alcuni decenni con Iran anche prima della rivoluzione) non più “ufficiale”, e mai di Repubblica Islamica dell’Iran (nome ufficiale) e si dava per sottintesa una continuità “Persia antica – Iran di oggi” come se mai vi fosse stata una rivoluzione di rilievo. Spero che la spiegazione su quale sia la questione del come hanno usato il nome Persia ed evitato qualsiasi riferimento politicamente attuale sia chiara.
Piante davvero belle e belle teche con reperti d’epoca e produzioni tradizionali artigianali.

Molto ben curato anche il bel documentario sulla cultura dei giardini della Persia e di come quella cultura, comune anche ad altre nazioni (pensiamo ai giardini in Cina o in Giappone), sia poi divenuta parte della nostra cultura europea. Il modello del giardino persiano era già realtà in Italia nel Rinascimento e da noi si sparse poi in tutta Europa. Io adoro i giardini, considerate che se in Civilization V mi capitava di poter fondare una religione mettevo sempre il Giardino tra le caratteristiche (+2 Happiness per la popolazione quando vengono costruiti).

L’unica cosa che ricordasse blandamente che l’Iran di oggi non è quello della Persia antica o del secondo dopo guerra con donne svestite come in Occidente, erano i ritratti nella sala del documentario. Solo due: gli Ayatollah Khomeini e Khamenei. Il minimo sindacale.
Decisamente un +1, il risultato di Expo sale a -2.

Informazioni, cultura e tante belle piante nel padiglione dell'Iran. E senza Islam.
Informazioni, cultura e tante belle piante nel padiglione dell’Iran. E senza Islam.

Padiglione della Turchia non pervenuto. Non la visita, proprio il padiglione: non c’era il soffitto. Si girava con la pioggerella (l’acquazzone è arrivato qualche ora dopo) in un’area aperta con teche da guardare piene di… uh… niente, a occhio e croce… e salette minuscole con roba dentro. Non saprei dire se fosse una cazzata tremenda o solo una robetta mediocre: la pioggia ha rovinato il giretto. Mi limito a un +0, anche se da quanto visto propenderei per un -1.

E arriviamo così al Giappone.
Due ore di coda annunciate dal cartello e confermate dal personale, un gruppo di ragazze carine ed estremamente cortesi, senza quell’aria ferma e decisa di “sono gentile, ma se sgarri ti spacco le gambe” delle belle coreane. Il mio lato masochista ha preferito le coreane.

Durante le due ore di coda, di cui un’ora e venti circa all’aperto sotto il sole e una quarantina di minuti scarsi dentro il padiglione all’ombra, ho avuto modo di apprezzare alcune cose. Quando ero fuori un fantastico cartello con annesso termometro che esaltava l’efficienza del tipo di architettura tradizionale usata che garantiva di mantenere più fresco il pavimento dentro il padiglione rispetto a quello fuori: 25 gradi fuori, 26 dentro. WTF?! Quello dentro era più caldo di un grado, non più fresco! In fondo anche i giapponesi si drogano, no?

In Giappone pare che 26 gradi sia più fresco di 25 gradi. A quanto pare si drogano anche nella loro isoletta felice.
In Giappone pare che 26 gradi sia più fresco di 25 gradi. A quanto pare si drogano anche nella loro isoletta felice.

Inutile dire che il padiglione giapponese per la ricchezza della loro cultura, per l’alta tecnologia, per l’efficienza e la volontà di fare bene dei giapponesi doveva essere una figata pazzesca. Cioè, la Cina si era già fatta carico di sotto-performare, ora era il momento di vedere qualcuno davvero bravo. NO.

Dopo la lunga fila in cui, perlomeno al chiuso, abbiamo potuto ammirare dei bellissimi spot giapponesi trasmessi su un paio di schermi, e dopo aver subito lo sguardo implorante della giapponesina che ci pregava di installare la App del padiglione per godere appieno delle meraviglie interattive contenute, siamo finalmente entrati. Davvero, dopo una prima domanda su quanti avessero installato la App delle 40 persone circa del blocco ammesso in cui NESSUNO aveva risposto di averla messa, sembrava che stesse per crollare. Ci ha guardati disperata e ha chiesto di installare la App. Faceva pena, tipo cucciolo bastonato. Ho installato.

Ovviamente la App non serviva a nulla. Prometteva di stupire con un’esperienza ampliata del padiglione, ma l’unica cosa che faceva di interattivo era di permettere di scaricare delle foto pietose nella seconda sala (mi pare, o forse terza) del percorso obbligato. Foto da scaricare trascinandole verso il proprio smartphone, inserito in uno slot di un tavolone circolare. Touch poco sensibile e laggava, come se poche mani che davano ordini bastassero a mandarlo in tilt. Andiamo bene…

Prime sale, insomma, una cagata pazzesca con fantasie artistiche da scemotti. Buone forse per i gonzi, ma temo neanche per loro: dal gruppo, quando ci permisero di lasciare la prima saletta, si alzarono diversi commenti molto forti in direzione dell’addetto del tipo “finalmente è finita questa roba”, “e meno male che possiamo andare” e cose così.

Video offerto dalla RAI con un po’ di tutto, in sintesi:

https://www.youtube.com/watch?v=ITxR7S0Zg8w

Stupenda invece la risaia. A quanto ho visto è piaciuta praticamente a tutti. Un percorso con una debole luce, riflessa da strutture circolari che formano le piante di riso della risaia, diviso in diversi sentieri. Buio. Suoni delicati. E, senza saperlo, specchi su tutti i lati che dopo pochi passi spaesarono del tutto facendo credere che il posto fosse dieci volte più vasto. Credo che a un certo punto alcune mattonelle fossero mobili, per ampliare il disorientamento con un piccolo passo falso, perché io ho avuto la sensazione che una cedesse e due ragazze vicine hanno detto la stessa cosa.

Seguiva spettacolino a tema, con pure un coniglio che danzava tra contadini e vari altri personaggi. Nelle sale dopo un tavolo che diveniva sempre più alto avanzando nella stanza per dare un falsa sensazione di pavimento rialzato (carino) e due aree molto ben fatte con piante e cibarie (tè, pesca, alcolici ecc.) giapponesi. Sfortunatamente il tempo della visita era limitato, circa 50 minuti, di cui molti occupati da stronzate: le parti più belle, che avrebbero richiesto un 10-15 minuti extra di contemplazione e lettura, dovevano essere lasciate per proseguire… le addette avevano una certa fretta.

La foto al cassetto con dentro il tè ovviamente ci voleva. Piccola curiosità, ma… avete notato che quel maccha è un po’ poco verde? Esiste anche maccha così chiaro, a quanto pare realizzato a partire da pregiatissimo tè bianco al posto di tè verde. Solo non mi aspettavo che venisse presentato come esempio tipico di maccha ai visitatori! Non è tipico, non è il maccha che uno si aspetterebbe.
Non badate al sobacha, non è tè: è grano saraceno tostato la cui tisana è molto diffusa in Giappone come bevanda alternativa al tè.

Notate l'indicazione "maccha" e non "matcha". Matcha non è riconosciuta come traslitterazione valida dalle autorità Giapponesi o dai puristi, solo maccha è legittimo e corretto. Sfortunatamente nel mondo del tè l'uso di matcha è così diffuso che perfino alcune aziende giapponesi nella vendita verso l'estero lo usano...
Notate l’indicazione “maccha” e non “matcha”. Matcha non è riconosciuta come traslitterazione valida dalle autorità Giapponesi o dai puristi, solo maccha è legittimo e corretto. Sfortunatamente nel mondo del tè l’uso di matcha è così diffuso che perfino alcune aziende giapponesi nella vendita verso l’estero lo usano…

Le due parti peggiori sono di sicuro state gli spettacolini. Prima quello con due pupazzetti retard che parlavano e pretendevano che poi uno interagisse andando a giocare con i due mappamondo interattivi (che laggavano pure loro moltissimo). Solo un imbecille potrebbe immaginare uno spettacolo per 40-50 persone basato sull’idea che 3-4 si alzino e vadano a giocare coi mappamondo per far proseguire la tortura. Non fregava veramente a nessuno.
Non so chi abbia progettato una simile coglioneria, ma in un Giappone migliore ora si sarebbe già tolto la vita per la vergogna.

Assolutamente tremendo lo spettacolo finale: il Ristorante del Futuro!
In pratica si entrava (lo avete visto nel video RAI prima), si sedeva a vari tavoli con schermi touch e bacchette e si seguivano le direttive di una simpatica giapponese e di un idiota italiano. Tra costumi imbarazzanti, balletti e canti. Lei faceva un po’ tristezza a fare un simile spettacolino idiota di fronte a una platea di adulti. L’esagitato italiano spero sia rimasto traumatizzato a vita per la vergogna di ciò che ha dovuto fare di fronte a tutti, per mesi.

Il Ristorante del Futuro non aveva nulla di futuro. Ci si limitava a poter toccare il cibo esposto per zoomarlo e avere qualche info, ma il tutto era così veloce che non c’era tempo di leggere. A malapena c’era per provare a interagire. Ridicola anche la richiesta iniziale di dare info su origini, preferenze ecc. perché poi il tutto è stato completamente ignorato e i piatti usciti erano quelli previsti e basta, fregandosene delle opzioni scelte dalla maggioranza (che ci erano state mostrate subito dopo la votazione).
Tutto questo dura circa 15 minuti, ma sembra un’ora. Terribile. Un estratto per chi vuole godere il puro retard incontaminato:

https://www.youtube.com/watch?v=qSKGQ-LwcBA

Terminato il patetico mix di balletti e dichiarazioni idiote dei due “artisti”, sotto lo sguardo carico di imbarazzo di decine di persone, ci è stato concesso di uscire. E finalmente siamo finiti accanto a un ristorante vero. Ci sono tornato dopo, per cena.

Qui si può vedere qualcosa in più rispetto al video della RAI (include Hatsune Miku, perché se no non è davvero Giappone, o perlomeno non il tipo di cui mi possa fregare):

Il padiglione del Giappone poteva essere seriamente un +2. Tra idiozie e tempo ridotto che non ha permesso di godersi le parti fatte bene (come viene in mente di realizzare un percorso lento e lungo e poi obbligare a sbrigarsi per non bloccare i gruppi successivi?), per cui non bastavano pochi minuti di disattenti sguardi, il voto invece è un +0 che, date le due ore di fila normalmente richiesta, diventa un “andateci solo se avete davvero tre ore da investire così”.

Visto che gli Emirati Arabi prevedevano una bella fila, si passa alla Federazione Russa. Devo dire che qui sono combattuto: lo stand era fatto bene, dava molta importanza alla tavola degli elementi, al grano russo, includeva un documentario sui mutamenti climatici in un’area orientale della Russia (forse non del tutto a tema) e un bar laboratorio, con tanto di degustazioni gratuite (però c’era molta fila e andando di fretta per vedere altri stand non ho approfittato).

Era a tema e dava davvero importanza al legame tra agricoltura e scienza, quasi a livello eccessivo: dopo i primi scienziati russi presentati nei documentari disponibili veniva da dire “Se la Russia intende presentarci tutti i suoi grandi scienziati così, usciamo da qui tra 50 anni”. Un bel padiglione in cui la propaganda d’epoca mi mischiava ad alcune foto imbarazzanti di Putin della propaganda attuale, come una in cui riceveva una premio per non ricordo cosa, giusto per ricordarci che è un santo che lotta per l’unico bene del pianeta Terra (che era un po’ l’idea di fondo del padiglione).

Tra una cosa e l’altra però il +1 ci sta. Sono tentato dallo 0 perché mancava atmosfera, mancava quel fascino che avevano altri padiglioni, ma i contenuti c’erano e (miracolo) pure degli assaggi di cibi e bevande. Vada per il +1, alla fine merita una visita: il bilancio di Expo è a -1, ancora solo due punti e sarà positivo!

Io davanti al padiglione russo. Putin, il mio cuore è la Crimea: conquistalo.
Io davanti al padiglione russo. Putin, il mio cuore è la Crimea: conquistalo.

Visto che il padiglione castello del Qatar ha un po’ di coda, puntiamo al fortino in cima alla salita dell’Oman. Altro grande padiglione di qualità, non di dimensioni, propaganda e copertura pubblicitaria. Il padiglione percorreva la vera vita agroalimentare dell’Oman: la pesca (con documentari), la coltivazione dei datteri, la produzione dell’acqua di rose, il miele.

Si vedeva cosa mangiavano, cosa producono, le difficoltà di una società che ha vissuto attorno alla pesca e ai datteri, orgogliosa delle proprie antiche tradizioni marittime pur vivendo in pratica nel deserto. L’importanza dell’acqua di rose, esportata negli altri paesi islamici che ne facevano largo uso. L’importanza dell’acqua come fonte di vita preziosa, quella del mare, quella delle oasi, quella del monsone estivo che alimenta il sistema di dighe e canali che ha salvato l’Oman dalla morte per 2000 anni.
Qui è un +1 deciso. Hanno fatto tanto con poco, rimanendo a tema e raccontando il proprio mondo senza bisogno di dimensioni colossali o deiezioni artistoidi. Il bilancio di Expo è finalmente neutro: 0.

E ora tutto l’opposto del padiglione dell’Oman.
Gigantismo, cialtroneria, musica pop inascoltabile e spazi sprecati per gli USA. Un padiglione imbarazzante tra schermi interattivi con cavolate (e tanto Obama) che ovviamente se uno lo sta usando gli altri non possono (esperienza mutilata per i visitatori) e che comunque facevano pena, ne ho provato uno, e un percorso sul cibo così penoso che nemmeno lo ricordo, fatto di piccoli video.

In cima una bella vista su Expo, con annesso bar in cui tutta la parte vini era presa dall’italiano Zonin, le cui bottiglie di prosecco e altri vini campeggiavano ovunque. Una signora con un sorriso tirato al limite del suicidio faceva un balletto della felicità, pretendendo che qualcuno fosse felice dal guardare lei che emanava disperazione fingendosi gioiosa. Uno spettacolo ancora più patetico del balletto giapponese nel Ristorante del Futuro. Si salva solo la torta di mele, questa volta fatta aperta e quasi tutta di mele, uvetta e confettura, in pratica un base di pasta con sopra una massa di ripieno da strudel e coperta da una granella. Ottima, la devo fare anche io.

La cosa atroce del padiglione USA era il messaggio sottinteso a tutto: non abbiamo niente da dirvi su come mangiamo e come viviamo, perché voi occidentali avete già abbandonato la vostra cultura e adottato la nostra e noi lo sappiamo. E sappiamo che molti di voi sono così istupiditi da non accorgersene nemmeno, vi basterà il puro gigantismo del nostro padiglione per lodarci e dire “Wow, questi sì che sono gli USA, non si smentiscono!” o roba simile. Commenti davvero sentiti: non c’era niente da vedere, ma a priori i simboli legati alla cultura statunitense obbligavano alla meraviglia diversi italiani, come il campanello di Pavlov obbligava i cani a salivare.
Vuoi vedere gli USA? Guardati allo specchio mentre rinunci a millenni della tua storia. Distopico.

Le semplicità e l'eleganza di un fortino.
Le semplicità e l’eleganza di un fortino.

L’imbarazzante arroganza del gigantismo suprematista statunitense, non supportata da alcunché di davvero interessante, riporta il bilancio in negativo: -1 per Expo.

La Romania ottiene l’attestato di tristezza Expo 2015. Proprio come in Blestemat si scopre che le rumene sono solo di due tipi: puttane oppure vecchie badanti chiattone. Seriamente: appena entrati c’erano due ragazze carine che ammiccavano, come se dovessero attirare clienti, e dentro dopo pochi passi una cicciona di mezza età che puliva. Senza alcun senso il padiglione rumeno: l’esposizione erano quadri di un artista moderno, roba senza alcun interesse, e sopra c’era un ristorante. Si capiva fin dal menù esposto fuori che alla fine la Romania aveva portato solo un ristorante, fregandosene del resto. Tristezza degna di un -1 che ci fa scendere a un bel -2.

Padiglione dell’Ungheria +0. A tema, ma poco informativo. Era per lo più una sequenza di prodotti in vendita alle bancarelle, però c’era posto per il cibo e per il vino. E c’era uno spettacolino che però non ho avuto tempo di osservare. Il codice QR fuori dall’ingresso, per andare al sito sul vino ungherese, aveva qualche problema: forse l’incorniciatura confondeva il software, ma metà delle volte dava un URL inesistente. Non mi sento di penalizzare del tutto il padiglione ungherese, ma era proprio insipido.

Romania: un ristorante camuffato da padiglione di Expo.
Romania: un ristorantino camuffato da padiglione di Expo.

Una nota particolare per il decumano di Expo protetto dalle strane vele di soffitto. Ok, da vedere è caruccio, niente di che, ma va bene. Il problema è quando viene testato per il proprio principale scopo, ovvero proteggere dalla pioggia durante una manifestazione lunga oltre cinque mesi.
Missione fallita: tra una vela di soffitto e l’altra passavano torrenti di acqua appena ha cominciato a piovere sul serio. Io non ho preso niente, ma è stato divertente vedere un sacco di gente farsi la doccia, rovinandosi così l’esperienza di Expo e magari tornando a casa con un bel raffreddore.

Sarei tentato da un +0 per sadismo, ma è oggettivamente un -1 che fa scendere Expo a -3: la prossima volta non fate progettare i tetti da un imbecille, per favore. Giusto il consiglio di chi non capisce nulla, eh. Però bilanciamo il tutto con un +1 generoso per gli ampi spazi e in generale l’ottimo aspetto di tutto l’evento (da fuori, poi dentro i padiglioni l’andazzo lo avete visto), facendo finta di non sapere che questa follia sarà pressoché inutile a livello di edifici tra pochi mesi. Un Expo in teoria deve lasciare strutture da utilizzare ancora per unire il diletto al bene comune, non essere un parco divertimenti isolato dal mondo. Expo risale a -2.

Io sto facendo di tutto per mantenere ottimismo e una visione di “ovvio che Expo è figo, lo dice Renzie!”, ogni -1 è dato a malincuore e solo se davvero necessario.

aprovadipioggia
A prova di pioggia.

Finalmente arriviamo al Regno Unito. Non avevo previsto di passarci, ma visto che eravamo lì e non c’era coda, perché no? Davo per scontato fosse un padiglione ben curato, dato tutto quello che il Regno Unito ha da dire sul cibo (soprattutto a livello culturale, pensiamo al “tè” come pasto pomeridiano).

Il padiglione è formato da un tristissimo giardinetto in cui si viene invitati a dividersi passando a destra o sinistra, ma 1. i due percorsi sono identici ed è irrilevanti cose si sceglie 2. la tizia che suggerisce di dividersi BLOCCA completamente il passaggio a destra, inviando implicitamente tutti a sinistra (tranne due che l’hanno gentilmente scostata e sono passati). GENIO.

Si arriva alla struttura vera e propria, l’alveare, progettata pare da un grande artista britannico. Uao, sono sconvolto, cioè, uao. Lammerda. Ok, no, non faceva così schifo: la struttura voleva evocare il percorso delle api e i loro suoni in un alveare, con appunto suoni e lucine (che per chi guarda potevano pure essere a cazzo di cane, ma sulla fiducia crediamo siano quelle di vere api) e una roba sulla trasmissione del suono tramite vibrazioni particolari che non ricordo.

In tutto il suo splendore.
In tutto il suo splendore.

Tutto questo per ricordarci, a quanto suggerisce il sito di Expo 2015, che il Regno Unito è aperto e operoso come un alveare di innovazione, progresso, scambio tra culture (globalizzazione come impollinazione tra civiltà!) e altre cavolate a metà tra un cartellone di Benetton e Peppa Pig. Fanculo, ma se fino a poco tempo fa sottomettevate i selvaggi e li obbligavate a bere il tè, mangiare con le posate e leggere la bibbia? Che cazzo state dicendo, non avevate nemmeno rispetto per gli irlandesi! XD

Comunque questa interpretazione se ci andate non la trovate. Avete solo quel brutto enorme fermacarte di alveare e uno stanzino ridicolo con due robettine. Zero cultura del cibo. Ovviamente un bel bar ristorante in cima al tutto, e da lì si può accedere all’interno dell’alveare.

Ah, nota per i pervertiti. Quando arrivate sotto noterete parecchi visitatori col naso in su, piuttosto soddisfatti della vista dell’alveare dal basso. L’artista quindi ha fatto un ottimo lavoro? Sì, a far spiare mutandine. Da sotto tutte le ragazze in gonna o minigonna dentro l’alveare al piano sopra avevano l’intimo completamente esposto.
Appena ho visto quell’osceno spettacolo ho maledetto la Perfida Albione e pensato “E se avessi avuto una figlia e costei, nella sua innocenza, si fosse svergognata esponendo la propria Virtù coperta solo da un sottile strato di stoffa agli sguardi luridi di potenziali stupratori?” Un oltraggio che solo il sangue avrebbe potuto lavare. Te la sei cavata per questa volta, David Cameron.

Francamente, il tema era il cibo. Per quanto riguarda il padiglione, possiamo pensare che nel Regno Unito vivano osservando inebetiti lucine e campando d’aria. Siamo seri, non gliene fotteva una sega del tema e non ci hanno provato: -1 e il voto totale va a -3.

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Non fatevi ingannare dal vetro che appare opaco in foto: con poco sole e dal vivo si vedeva tutto. Posso garantire: ho guardato bene per esserne sicuro.

Chiudiamo in bellezza con gli Emirati Arabi (due ore di fila sotto il temporale). Gli Emirati hanno sborsato soldi buoni fin dall’inizio, attirando giornalisti e promuovendo il loro padiglione come superfigo ecc. perché il prossimo Expo sarà loro e ci tengono a far sapere che spaccano le noci di cocco col culo.

In realtà il padiglione degli Emirati è una cosa abbastanza triste. Non è proprio brutto, solo che non vale la pena andarci perché quasi tutta l’esperienza si riduce a un film e a un secondo film con la bambina protagonista che parla al pubblico e alla fine canta una canzone demente a livello Cristina D’Aprirsilevene

Prima del film c’è un canyon da visitare. In pratica le mura del padiglione avvolgono il passaggio espositivo, lasciato quindi senza alcun soffitto. Sì perché a Milano non piove mai, proprio come a Dubai, giusto? In quel percorso è possibile ammirare diverse sciocchezze contornate di grafica con effetto ologramma squallido di Star Wars, vagamente interattivi. Vabbe’…

Lo spettacolo migliore erano gli uomini degli Emirati venuti fin lì. Le donne erano tutte con la testa coperta dal velo e molto sottomesse, sempre in silenzio, sempre dietro. Gli uomini avevano tutti la faccia da camorrista, strafottenti, brutti, abbronzati, con atteggiamenti da finti gangster. Napoli coi soldi del petrolio e le donne schiave, ecco gli Emirati.

Delizioso il loro modo di tenere in riga le donne occidentali: se un uomo voleva parlare con un’addetta italiana non la chiamava dove era lui, al coperto, ma usciva sotto la pioggia in modo che lei dovesse coprirlo con l’ombrellino mentre si bagnava. E cercava di farla stare sotto la pioggia il più possibile. Visto almeno tre volte durante la coda, a quanto pare li divertiva molto.
Un’alternativa soft prima di poter tornare a casa a svuotare AK-47 verso il cielo e torturare con frusta, marchiature e altre delizie il gran traffico di schiave bianche che dall’Europa alimenta il mercato dei ricconi nei paesi arabi. Ben peggiore del flusso che alimenta la prostituzione da noi. E traffico di cui non frega un cazzo a nessuno, tanto le schiave bianche vengono per lo più dai Balcani e dai paesi slavi…

Se i camorristi cammellieri non vi attirano dal vivo, potete godervi metà dal padiglione degli Emirati semplicemente guardando questo video:

Bilancio degli Emirati: +0. Padiglione un po’ triste, video un po’ squallido, ma almeno ci hanno provato. Se si dovesse valutare invece la gente di quel paese, è da bomba nucleare: unica soluzione possibile per quella fogna di degenerazione e malvagità (ma i nostri migliori amici dell’Arabia Saudita sono peggio, per cui enjoy!).

Questo era l’ultimo padiglione visto con attenzione. Alle 20:20 siamo andati al ristorante giapponese, gestito dalla catena internazionale CoCo ICHIBANYA, per prendere il riso al curry. Poca fila, prezzi contenuti, ordinazioni su un comodo menù al computer (un po’ come già stanno facendo diversi McDonald). Con, mi pare, 12 euro ho preso un bel katsu-kare: riso al curry con sopra una cotoletta di maiale impanata.
Cotoletta davvero ottima. Il curry aveva pochi pezzetti di verdure (qualche pezzettino di carota e patata), sembrava poco più dei blocconi di roux già pronti con le spezie che si usano molto in Giappone per farlo.

Tè buono. Un Oi Ocha (“tè, per favore!”) della Ito En, marchio diffuso in Giappone. Un tè verde dal sapore un po’ strano, che mi è parso a metà tra le note marittime di un Sencha, quando era freddo, e le note dolci e tostate di un Houjicha, quando si è scaldato un po’ aprendo i profumi. Ovviamente senza alcun dolcificante, cosa che ho molto apprezzato. Pure il colore brunito ricordava più un Houjicha che un Bancha o un Sencha, di solito giallino verdolini. Curioso.

Il depliant di Hello Kitty sulla cultura alimentare giapponese (incluso il concetto di "umami") era da solo molto più ricco e culturale di tutto il padiglione USA.
Il depliant di Hello Kitty sulla cultura alimentare giapponese (incluso il concetto di “umami”) era da solo molto più ricco e culturale di tutto il padiglione USA.

Prima di lasciare Expo ho fatto un salto al padiglione del vino. Allora, per chi non sa nulla di vino non era granché: pochissime spiegazioni, zero coinvolgimento emotivo per chi già non ama il vino. Dentro era possibile con 10 euro comprare un tesserino da 3 assaggi (bisognava prendere anche il calice, non ricordo se era incluso o cosa costasse) e bere a scelta, sfruttando dispensatori automatici, 3 vini qualsiasi tra tutti quelli esposti. Non ho approfittato, ma era una bella selezione, c’era da passarci un paio di belle orette solo a guardare e degustare rifacendo i tesserini. Ma per chi non era appassionato non era il top… nell’insieme è un +0, secondo me.

Ed ecco qua, qui finisce il mio report della giornata a Expo.
Dalle 10 del mattino alle 21, senza mai sprecare tempo. Il bilancio non è granché e si attesta a un negativo -3. Non è tragico, ma non è nemmeno da lanciare grida di gioia e dare del pazzo a chi non ci va. Sapendo cosa c’è di buono e cosa no è possibile ridurre la propria esperienza ai soli padiglioni validi: se ancora dovete andare usate youtube e valutate attentamente. Vi divertirete molto di più.

Mi è piaciuto? Così così (perché non ho pagato 35 euro, se no sarei ben più infastidito) e devo confermare il titolo: è stato il Daspo del cervello. Poche cose ben fatte si mischiavano a tali mostruosità di idiozia da lasciare basiti. Un Expo che si può godere solo chiudendo fuori il cervello dal cranio, sperando che non lo prenda come un Daspo: per qualche giorno le facoltà mentali potrebbero non tornare. ^__^

Ecco la mia tabellina dei paesi visti (esclusi quelli da rapida capatina che non ho descritto):

Bilancio della visita a Expo

Tornerò a Expo una seconda volta, come avevo pensato all’inizio, per godermi una parte dei tantissimi padiglioni non ancora visti? NO. Francamente non merita il prezzo del biglietto, a quanto visto nella prima esperienza, e non ho tempo per passare in rassegna tutti gli altri padiglioni in cerca di 8-10 fighi a cui dedicare una bella seconda visita. Anche ad avere un altro biglietto in regalo, non lo farei. Ma non sono per niente pentito della prima visita “gratuita”.

Ma basta parlare di me: sono le ultime settimane per andare a Expo, tu ci sei stato?

4 Replies to “Expo 2015: il Daspo del cervello”

  1. C’ero anche io il 18 e devo dire che il tuo post rende perfettamente la lagnosità della visita. Io al Giappone ci sono stato il 19 dopo una fila di due ore e mezzo avendo pagato i biglietti per due giorni e i parcheggi e fatto le file al parcheggio per entrare , al parcheggio per salire sugli autobus, all’ingresso per entrare, e poi davanti a ogni singolo padiglione. Non c’è una sola fila che valga il contenuto che viene poi mostrato. Un enorme caleidoscopio turistico ad uso di spettatori di bocca buona, bassa percezione ed alta attitudine allo stoicismo. Poi se vogliamo dire che l’albero della vita è un’opera d’arte, dovremmo dirlo anche della tua camicia a quadrettoni e saremmo troppo generosi, no ? 🙂

  2. Due ore in coda per visitare il padiglione del Giappone. Caldo, non un posto per poggiare il culo e una bambina insopportabile che urla subito dietro di me. La pressione che si abbassa, il mondo che comincia a girare. La speranza che dentro mi attenda un mondo migliore.
    Le porte si aprono, il segreto tanto agoniato si svela…
    Una risaia fatta di specchi. Cibi in vetrina. Due cretini che cantano e ballano e ci dicono di fare il segno dell’armonia con le braccia.
    Giuro che avrei ammazzato qualcuno: rivoglio indietro tre ore di vita. E trenta euro di biglietto.

  3. è vero, quando oggi ho letto che ci sono 5 ore di fila per il Giappone, ho pensato che qualcosa nel meccanismo celeste s’è rotto. e non basta giustificarlo con il pecorume da social network il cui tam tam lo considera imperdibile . Forse c’era un livello di geishe e samurai che ci siamo persi .

  4. Un bilancio fin troppo lusinghiero per questo orrore europeo, concepito e realizzato solo per derubare montagne di denaro ai danni dei cittadini e sbeffeggiarli con un tema insulso mentre muoiono di fame.
    Non ci sarei andato nemmeno se mi avessero regalato i biglietti, ma posso comprendere la curiosità?
    Visitare questo monumento all’idiozia e l’ignoranza mentre mafie e tecnocrati se la ridono non fa per me.

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